Racconto vincitore dell'edizione 2008

IL VIOLINO DI "BARBA FÙNSU"

di MAURO CANEPARO

Tutte le volte che apro la vecchia custodia per trarre il violino dello zio Alfonso (Barba Fùnsu, come si dice in Val Susa), mi succede che...
... è una custodia semplice e squadrata, in legno d’abete, verniciata esternamente di nero e nel cui interno si sente ancora il gradevole profumo di resina che ti penetra e ti riporta a quei momenti indimenticabili e felici che tutti abbiamo vissuto, legati al ricordo di quella fragranza.
Nella parte interna del coperchio sono incollate due fotografie: si tratta di vecchie foto, da tempo ingiallite. Ritraggono due ragazzi in divisa militare. “Barba Fùnsu” in tenuta d’alpino, con aria severa e due grossi mustacchi, la mano sinistra appoggiata allo schienale di una sedia ed il braccio destro piegato, con la mano che poggia sull’anca. “Barba Fùnsu” aveva vent’anni in quella foto del ’14. Alle sue spalle, il classico sfondo degli studi fotografici di quel tempo: imponenti tendaggi dipinti ed improbabili balaustrate aperte su finti giardini.
Nell’altra, un ragazzo con l’uniforme delle truppe di montagna dell’esercito Austro-Ungarico (Kaiserjäger), la mantellina sulla spalla destra e l’espressione assorta: Johann Mayer.
Il violino di “Barba Fùnsu”, è un vecchio violino senza pretese, forse austriaco o cecoslovacco, con un marchio “HOPF” inciso a fuoco nella parte sottostante del manico, nel punto in cui s’innesta nella cassa armonica.
Tolgo allora l’archetto fissato ad un lato del coperchio, tendo i crini e poi sollevo il violino. L’accordatura richiede poco tempo: è un violino con sonorità lievemente dura...
... sì, diceva “Barba Fùnsu”, è un violino fatto apposta per suonare musiche da ballo popolari, valzer, mazurche, polche, accompagnato da una fisarmonica, magari un mandolino od una chitarra, e la gente che ascolta inizia a ballare. In quel tempo breve, dimentica angosce e fatiche quotidiane. Al paese, cioè a Borgone, eravamo tre ragazzi a suonare nei giorni di festa, al circolo operaio del cotonificio, nella grande piazza del municipio, a volte nelle frazioni. Ciampàn, Ciantusèl, Gandùi... senza dimenticare che si suonava anche in chiesa per occasioni particolari; quello, ovviamente, era un altro genere di musica.
“Giacu dla roca” suonava la fisarmonica, “Mènich dla cumba” il mandolino ed io, “Fùnsu ’d Ciampàn” il violino. Anche noi avremmo voluto ballare con le ragazze del paese, ma eravamo ugualmente felici nel vedere la serenità negli occhi dei nostri compaesani.
Io, Giacu e Mènich eravamo inoltre coscritti (classe 1894) ed alla mobilitazione generale del ’15 ci ritrovammo insieme nella 33ª Compagnia del Battaglione “Exilies” del 3° Reggimento Alpini. “O roch o valanga” era il nostro motto.

La nappina verde sul cappello indicava l’appartenenza al 3° Battaglione del Reggimento; gli altri erano: il “Pinerolo”, il “Fenestrelle”, il “Susa” ed il “Moncenisio”, come dire i nomi significativi delle nostre valli. Sempre nel ’15 si aggiunsero i nuovi Battaglioni: il “Monte Albergian”, il “Monte Assietta”, il “Monte Granero” il “Val Cenischia”, il “Val Chisone”, il “Val Dora” ed il “Val Pellice”.

Perchè ricordare tutti i nomi dei Battaglioni del “nostro” Reggimento? Per non dimenticare.
Partimmo da Torino ai primi di maggio; al 23 dello stesso mese eravamo già in zona di guerra...

Non sto a riportare l’intero diario di “Barba Fùnsu” relativo al periodo della Grande Guerra, mi limiterò ai soli momenti legati a questo semplice ma importante violino...
... di tre amici che partimmo, tornammo a casa in due, anzi, uno e mezzo. Il primo ad andarsene fu “Giacu dla roca” ai primi di luglio del ’15, dopo un solo mese che si era in guerra. Cadde a quota 2052 sul costone est del Monte Nero.
Per molti giorni io e Mènich non riuscimmo a parlare. Quando chiudevo gli occhi rivedevo il nostro trio intento a suonare: la fisarmonica di Giacu non ci avrebbe mai più accompagnati.
A giugno del ’16, alla Malga Campiglia sul Pasubio, Mènich fu raccolto con il braccio destro spappolato. “Ciau Fùnsu, mi i turn-a cà!” mormorò mentre lo trasportavano verso il posto di prima assistenza. All’ospedale da campo gli amputarono il braccio. Anche il mandolino di Mènich sarebbe rimasto in silenzio.
Mi considerai fortunato per essere sempre riuscito a rientrare al mio posto senza alcun danno.
Nel settembre del ’17, nel fatto d’armi del secondo tunnel ferroviario di Monfalcone, la fortuna mi fu di nuovo benevola: con pochi altri caddi prigioniero nelle mani del nemico, mentre molti miei compagni giacevano a terra, alcuni per sempre.
Fui dapprima internato nel campo di concentramento di Braunau Am Inn e successivamente destinato ai lavori nei campi: dovevamo sostituire i giovani che stavano combattendo sui vari fronti. Mi ritrovai così ad Hermsberg, uno sperduto villaggio tra i monti della Carinzia, nelle Alpi di Villach. I pendii erano morbidi, ondulati, ricchi di prati, boschi ed alpeggi; intorno, in lontananza, svettavano alte cime rocciose... rividi i miei monti, la mia valle, la Dora che scorreva argentea sul fondo... due anni di guerra mi avevano represso i sentimenti, era subentrata l’indifferenza, il cinismo indispensabile per sopravvivere. La visione di quei monti senza trincee né eserciti, mi riportò la serenità e la nostalgia del mio paese.

Nella maestosa pace di quei luoghi ritrovai la parte più nobile dei miei sentimenti: credevo di averli persi lungo le trincee di quei drammatici anni.
Lavoravamo nei campi, nei boschi e negli alpeggi: nulla di diverso da quel che si faceva a casa nostra. La cultura alpestre era nata senza i confini creati dall’uomo. Un giorno fui inviato nei campi attigui alle case per rastrellare il fieno. A un tratto mi parve di sentire in lontananza il suono di una fisarmonica; mi fermai e tesi l’orecchio. Era veramente una fisarmonica! Stava suonando un valzer che ben conoscevo... lo eseguivo anch’io con Giacu e Mènich... maledetta guerra... non avrei mai più goduto di quei momenti spensierati in loro compagnia.
Valzer, mazurche e polche continuarono per tutto il giorno e per quelli successivi. Sarà un vecchio a suonare, pensai, ed intanto la mia curiosità si faceva sempre più morbosa.

Un giorno, nel momento della pausa per il rancio, mi feci forza e chiesi all’Unteroffizier (sergente) che comandava le guardie e che masticava un po’ d’italiano, se fosse stato possibile conoscere il suonatore di fisarmonica, perchè io, da civile, suonavo le stesse musiche con il violino.
Il sergente si allontanò in direzione delle case; tornò dopo qualche tempo dicendomi che non era possibile.
L’indomani mattina, prima della destinazione ai lavori, il sergente mi ordinò di precederlo lungo il sentiero che saliva al villaggio. Il suono della fisarmonica si faceva sempre più forte man mano che ci si avvicinava. Ci fermammo in una piazzetta nel cui centro si trovava il classico abbeveratoio in pietra, le case intorno erano di legno con le finestre adornate di cascate di gerani rosseggianti.
Sotto il portico di una di esse vidi il suonatore di fisarmonica: non era il vecchio che avevo immaginato, bensì un giovane con l’uniforme di
Gefraiter (caporale) dei Kaiserjäger. Era seduto su una grande sedia di legno... smise di suonare e ci guardammo dritto negli occhi... “il nemico...” pensai... “der Feind...” poi il mio sguardo scivolò involontariamente verso la coperta che gli nascondeva le gambe... cioè, i due tronconi che si fermavano al ginocchio; provai una gran pena... e forse sono stato io... “du könntest mich ershossen haren...” i nostri sguardi tornarono ad incontrarsi... maledetta guerra, tutti così giovani.., “ja, wir waren sehr jung...” osservai la fisarmonica, ecco, sì, la musica... con l’universale linguaggio dei segni feci capire al giovane che io, puntando più volte l’indice al mio petto, suonavo il violino, simulando con il braccio destro il movimento dell’archetto verso il braccio sinistro che reggeva un violino immaginario.
Il giovane sorrise ed indicandomi una nera custodia di legno...
«das ist die Geige...» la aprii e trassi archetto e violino, poi mi diede il “la” con la fisarmonica ed io presi ad accordare con delicatezza lo strumento. Anche se il mio udito era stato maltrattato in quei due anni, ritrovai le giuste note e quelle gentili armonie che non avevo dimenticato. Iniziai con qualche accordo, un paio di scale e poi tentai un brano... né valzer né mazurche... come se a guidarmi fosse stata una volontà superiore. Suonai l’«Ave Maria» di Schubert. Chiusi gli occhi e mi ritrovai col mio violino accanto all’organo, nella chiesa del paese affollata durante la Messa... poi rividi Giacu, Mènich e tutti gli altri. Le lacrime iniziarono a scendere lungo il viso, malgrado gli occhi fortemente chiusi.
Dopo tanto tempo, sentii finalmente il mio animo abbandonarsi serenamente nella profonda quiete di quella celestiale melodia. Quando terminai, riaprii gli occhi tenendoli fissi verso terra, con l’intenzione di riporre il violino, ma il giovane mi chiamò...
«Freund...» “amico...” pensai, sì, “amico”, mentre ci stringevamo con vigore la mano destra... «Johann», disse, «Alfonso», aggiunsi.
Quasi quella stretta di mano fosse stata un segnale, arrivarono dalle case del villaggio donne, vecchi e bambini. Johann mi fece cenno di iniziare un brano, allora presi a suonare un valzer ed egli prontamente mi accompagnò con incredibili virtuosismi. La gente cominciò a ballare... come a Borgone nei momenti di festa...
Da quel momento, io e Johann continuammo a suonare giorno dopo giorno fino all’estate del ’18, quando fui internato nel
Kriegsgefangenenlager di Mauthausen.
Johann era riuscito ad ottenere un permesso speciale che mi consentiva di tenere il violino.
«Bruder...» mi disse, mentre, come la prima volta, ci stringemmo la mano... Sì, fratello, fratello nelle nostre Alpi nella musica ed in un mondo senza confini.


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