Racconto vincitore dell'edizione 2007

LA SPOSA STRANIERA

di LIDIA BIANCO

Qui parliamo degli anni '60, quando la gente, per vivere di tanto, cominciò a vivere di meno.
E in una vita di niente, come quella che (guardata alla luce dei tempi) cominciò ad essere la vita del Caristo, capitò un fatto inaspettato.
Intanto, Caristo era un soprannome regalatogli dagli altri a siglare la sua abitudine ad imprecare così, forse per non dire Cristo, ma per dire comunque qualcosa, perché nella quotidianità contadina bisogna inveire almeno venti volte al giorno.
In realtà si chiamava Giuseppe. Ma ormai non lo sapeva più neppure lui, fatto su dall'abitudine degli altri e visto che da solo non si chiamava mai.
Perché il Caristo viveva assolutamente solo, da tempo infinito, in una di quelle sperse case sparse che poi fanno anche il carattere di una persona e sovente il destino.
Negli anni sessanta lui, che era del '92, aveva maturato il tempo che non aspetta più nulla. E invece il mondo attorno a lui prendeva altra foga di rincorsa. Come, per esempio, la scoperta dell'Italia da parte di giovani dell'Est che la credevano nuova America.
Tante ragazze sfuggivano alle frontiere per cercare quell'erba più verde che effettivamente, allora, sembrava smagliante. E una volta raggiunto l'Eldorado, per rimanervi, avevano l'unica possibilità di farsi sposare e diventare cittadine italiane in virtù di un matrimonio.
Sovente la loro strada era tracciata da profittatori di mestiere che sapevano come sfruttarne le aspirazioni, per cui erano loro stessi a cercare di sistemarle anagraficamente perché la fortuna continuasse. E non c'era nulla di meglio che trovare qualche vecchio scapolo disposto a prestare il cognome in cambio di qualche lira.
Se era solo, il contratto era assai più semplice. Se poi era anche un po' credulone, il prezzo si poteva tirare fino a renderlo poca cosa davvero. Capitò uno di questi affaristi dal Caristo, introdotto ovviamente da una persona di cui il Caristo potesse fidarsi almeno in virtù della conoscenza.
Gli spiegarono che si trattava di fare un'opera buona. Aprire, cioè, la porta a una ragazza giovane e bella, perseguitata politica, che era disposta a pagarsi la libertà diventando sua moglie. L'avrebbero compensato per il disturbo, a patto che poi non pretendesse niente di più, né, tanto meno, qualsiasi diritto coniugale.
Il Caristo rimase colpito dalla cosa e disse:
"Ci penso".
In cambio di mezzo milione poteva anche pensarci, perché era quanto gli veniva ogni anno dalla sua terra, a strapparle fin le radici.
Gli lasciarono una fotografia della ragazza, giovane e bella, bionda come le slave che aveva intravisto nella guerra del '15-18 e di cui era stato facile innamorarsi come di un'esotica magia.
Così poté pensarci anche meglio.
Di sposarsi non gli era capitata l'occasione in settant'anni e non gli sarebbe certo capitata più, per cui non avrebbe intaccato le sue possibilità. Poi c'era quella somma che gli faceva comodo assai, senza contare che lo ringalluzziva non poco l'essere stato scelto per qualcosa che era pur sempre un passo importante nella vita di una donna.
Alla fine della settimana stabilita disse sì al sì che doveva dire, come se fosse davvero per sé. E mise la foto della ragazza sulla credenza, imparando a dirne piano il nome, "Sonia", come dolcemente cullato dall'attesa.
Quando tornò il mediatore con i documenti, gli chiese più particolari e un vestito nuovo.
"Non posso sposare una ragazza così con un vestito di trent'anni fa."
"Ma sarà roba da cinque minuti, davanti al sindaco e senza che la gente veda o sappia nulla."
"E perché non deve vedere o sapere? Non facciamo mica del male!"
"Perché non è necessario. È un contratto così, tanto per farle prendere la cittadinanza."
"E io invece voglio un matrimonio che la gente veda. E non voglio sfigurare. E voglio tornare a casa e fare festa per tre giorni almeno."
"Ma l'avete capito che lei non starà con voi?"
"L'ho capito. Non starà con me per sempre, ma tre giorni per il viaggio di nozze è il minimo."
"Ma che viaggio di nozze! Lei non può andare da nessuna parte!"
"Anch'io non posso andare via, con le bestie. Staremo a casa, ma staremo insieme come Dio comanda."
"Dio qui non comanda niente, perché prima di tutto è un matrimonio civile in cui Dio non c'entra e poi non sarete sposati per davvero: solo per darle il nome."
"E bén, io il nome lo do a queste condizioni: un vestito nuovo, tre giorni con me e la fotografia del matrimonio."
"Ma credete mica di andarci a letto? Lei non accetterà. Le condizioni erano altre."
"Non ho detto questo. Io chiedo solo che venga a casa mia. Almeno per salvare le apparenze. O così o niente."
Tornò il mediatore a dire sì:
"E adesso firmate o vado a cercare qualcun altro".
Poi lo caricò sulla macchina e lo portò in città in un negozio di abbigliamento dove poté misurare tutti i vestiti che volle. Alla fine scelse un completo grigio scuro, com'era stato il suo antico vestito di trent'anni prima, la camicia bianca e la cravatta.
Uscendo chiese di portarlo da un orefice.
Per la fede.
"Ma che fede! Non è necessaria."
"Per me no, ma per lei sì. La pago io, questa, state tranquillo. Non voglio che pensi che sono un avaro. È un regalo che l'uomo deve fare, come Dio comanda."
Il Caristo, malgrado il colorito soprannome, non era molto conosciuto in paese, nel senso che se ne aveva poco da dire. Veniva su a far la spesa, raramente per sedersi al caffè e pregava Dio da sotto una pianta che, almeno, l'aveva fatta Lui. Lo conoscevano quasi soltanto i vicini di campi e vigne con cui si scambia qualche parola asciugandosi il sudore. Ma mai abbastanza da fare storia.
Così, quando salì in piazza un sabato mattina, tutto tirato a lucido per sposarsi, quasi nessuno sapeva quel che era venuto a fare. Solo dopo se ne parlò come di un fatto che la gente faceva fatica a mettere proprio bene in luce scandalistica.
Ma per lui fu comunque il giorno più bello della sua vita e, quando in Municipio si trovò davanti la Sonia, trattenne il respiro di sorpresa e piacere. Già si sognava in fotografia con lei, appeso alla parete della sala, immortalato nel suo istante più alto.
Adesso era proprio contento che quell'avventura fosse capitata a lui e poco importava che le clausole del contratto gli inibissero l'accesso più segreto e accattivante. Si asciugò la mano sudata di emozione e strinse quella piccola e bianca della Sonia i cui occhi azzurri ammiccarono un sorriso che più bello non si può.
Poi entrò con lei, il mediatore e l'amico comune nella stanza del sindaco che si alzò, salutò e si mise la fascia per le domande di rito. Non si sedettero neppure.
Il Caristo disse sì con la voce che tremava e stette ad aspettare il sì di lei accostato al suo nome.
"Vuoi tu, Sonia , prendere il qui presente Giuseppe..."
"Sì."
Non capì il cognome di lei, ma una creatura così poteva essere soltanto una nobile decaduta.
"Vi dichiaro marito e moglie."
"La fede..." disse il neo sposo.
"Ah, la fede" fece eco il sindaco tra il perplesso e il divertito. E aspettò che il Caristo la tirasse fuori dalla scatola, sorridendo a lei che, un po' stupita, si vide mettere al dito il cerchietto d'oro.
"Questo è il mio regalo" le disse.
"Regalo?" compitò lei stentando a capire. "Ah, regalo! Mio?...Bello!" E lo baciò in risposta su una guancia con lo slancio di una bambina felice.
Uscirono dal Municipio e salirono sulla macchina del mediatore che adesso spiegava alla sposa i termini del contratto aiutandosi con parole straniere che il Caristo non capiva.
Ma lei rispondeva sempre:
"Bene. Ah, bene!" e sembrava felice.
"Tre giorni" ripeteva il sensale in italiano perché fosse chiaro per entrambe le parti.
"Martedì mattina ritorno a prenderti. Ma niente scherzi. Matrimonio in bianco, come da contratto firmato."
"Ah, bene!"
E furono lasciati a casa del Caristo dove lui si affannò a presentare alla Sonia le poche stanze, i mobili e le suppellettili, attardandosi a raccontarle i particolari di famiglia come se dovesse accasarla davvero ad ogni cosa.
Lei sorrideva sempre ripetendo: "Bene".
"Non moglie, tu?" chiese stentatamente.
"Tu sei mia moglie."
"E no prima?"
"No: celibe! Anche la tassa sul celibato ho pagato, al tempo del Duce."
"Ah, bene!"
Lui aveva preparato da mangiare tutte le cose migliori che sapeva: un pollo bollito, salame, formaggio. Lo soccorreva la stagione della frutta e delle verdure più varie e abbondanti che bastava staccare dalle piante allungando una mano.
"Bello!" diceva lei, rasserenandolo e dandogli la sensazione di quell'eterno che neppure Dio ci può più rubare.
Il Caristo parlava, parlava incessantemente per smorzare la soggezione che gli veniva, più che dalla ragazza, dal senso di padronanza che poteva vantare su di lei. Perché, contratto o non contratto, per la legge lei era davvero sua moglie e, se avesse voluto venir meno al pattuito, nessun santo sarebbe stato abbastanza in gamba da tenere.
Ma lui era un uomo di parola. Soprattutto gli faceva già molto quel poco inaspettato che gli era venuto. E una donna, poi, non sapeva neppure bene come andava trattata.
Mangiarono seduti al tavolo, con il Caristo che traduceva in parole le pietanze e la ragazza che sorrideva, il Caristo che le versava da bere vino d'annata e la Sonia che si faceva allegra di inusuale.
Dopo pranzo la portò a vedere le vigne e i campi attorno a casa, indicandole l'uva già ingranita, mimando i lavori della vendemmia e della vinificazione.
Le raccolse dei fiori piccoli e selvatici con un gesto che l'uomo di campagna non usa mai, ma il Caristo, quel giorno, faceva parte di un tempo regalato da giocare sereno. Le offrì della frutta appena colta che la Sonia mordeva con i suoi denti sani e bianchissimi. Gli sembrava di vivere in un Eden dove lui solo era rimasto, lui e la sua moglie imprestata.
Si fece ombra sulle colline e rientrarono in casa.
Cenarono, mentre lui si affannava a cercare musica alla radio, scusandosi di non possedere la televisione che era ancora appannaggio quasi esclusivo dei bar e degli oratori. Ma la ragazza lo incoraggiava a parlare. Così le raccontò tutta la sua vita, senza preoccuparsi se lei capiva o meno.
Mimò la grande guerra con la nostalgia dei vent'anni:
"M'avessi conosciuto allora!... Eh, già, ma allora tu non c'eri".
Poi venne il momento di coricarsi e il Caristo accompagnò la Sonia nel suo letto a due piazze, con le lenzuola dal profumo di sole, dicendole che lui avrebbe dormito sul sofà della sala.
"Perché no qui?" chiese lei senza malizia.
"Perché non posso."
"Tu fare lo stesso. Noi dormire, no altro."
E il Caristo, considerato che non veniva meno alla parola data, accettò e si fece piccolo nel suo angolo, angosciato al pensiero di russare, di darle in qualche modo fastidio. Disse "Buonanotte" ma rimase sveglio, come un padre o un uomo o chissà... Cercava di non pensare che a due spanne da lui c'era una donna con tutti i crismi del paradiso terrestre. Era assurdo infuocarsi alla sua età.
"Tu mai donne?" sentì la voce di lei nel buio, dopo un lungo silenzio.
Non seppe che cosa risponderle. Temeva di fare brutta figura in qualunque maniera. Ma la notte era disarmata di mondo e lui anche. Alla fine fu sincero.
"Mai donne".
"Mai una?"
"Mai."
Sentì una mano di lei salire al suo viso in una piccola, infantile carezza. Quasi di madre, quasi di figlia. E la tenerezza gli scoppiò il cuore gravido di niente. Vide la sua esistenza tutta di attese, attese che già tornavano sui propri passi come certe del loro non spazio nella vita, attese che rientravano nel buio del tacersi, spese nel terreno arido dell'inutile.
Perché càpita una donna nella vita a farla tutta domani? E perché non càpita?. Perché per alcuni si squarcia il cielo di luce chiassosa e per altri borbotta appena uno stonato silenzio?
La notte era la stessa dei suoi vent'anni. Avvolto in quel lenzuolo, poteva pensare di non averli mai passati e sentirne il credito potente nei confronti di tutto l'inganno che l'aveva condotto per mano ai settanta.
Cantavano i grilli la nota costante dell'essere natura e il gufo chiamava l'amore: piccoli dèi non tralasciati dai sensi, mentre lui non sapeva alcuna risposta al suo eterno cercare.
Così la voce di lei suonò armonia sfuggita a ogni vero:
"Tu vuoi con me?"
E lo accompagnò dolcemente a conoscere l'infinito del tempo, dove l'uomo non si sente più sconfitto da nulla, dove germoglia la vita celandosi il senso della morte, dove ci si tramanda inebetiti di bello nel punto fermo che non cerca, non chiede né aspetta, troppo confuso con un tutto completo che ci fa.
Quando il mediatore tornò a prendere la Sonia, lui gliela consegnò e rifiutò il denaro.
"È il mio regalo per lei" disse a spiegare e lei gli posò un piccolo bacio sulla guancia salutandolo con la mano piccola come fanno i bambini.
"Ciao."
"Ciao. E pianse finalmente per tre giorni di fila."
Un anno dopo lo chiamarono in Municipio per dirgli che sua moglie aveva fatto trascrivere la nascita di un figlio sotto il suo nome.
"Quando è nato? chiese lui confuso."
"La settimana scorsa."
Non era scemo da credere che i bambini nascessero di dodici mesi e capì benissimo che quello non l'aveva seminato lui, ma non gli importò. Anzi, lo sentì subito stretto parente a quella notte, figlio di un grembo che aveva ospitato anche lui.
"Come si chiama?"
"Giuseppe. Come voi."
Gli bastava questo a sentirsi passato nella vita con un segno che lo comprendeva.
Non gli venne mai per la testa di cercare ancora la Sonia e il bambino che portava il suo nome, così come non si cercano i sogni alla luce.
Gli bastava sapere che un pensiero di lui sarebbe rimasto a questo mondo anche dopo che fosse partito per sempre.
Che importa quanto è lunga la vita quando è tutta?


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