Racconto vincitore dell’edizione 1998

LA RICCIOLA

di Maria Palchetti Mazza

 


Il borgo si inerpicava rosato di mattoni sul fianco della collina, con le sue strade strette e tortuose che ogni tanto si aprivano in uno slargo riposante come un respiro.

Nel silenzio, si sommavano secoli di sommessi pensieri e mormorii di quella gente alacre e puntigliosa, nata dalla dolce terra allargata in lontani orizzonti.

Dalle finestre piccole delle case si seguiva senza parere la storia del borgo della quale facevano parte anche le vicende della Ricciola, una brunetta dalle gambe snelle e la capigliatura nera, folta e ribelle come una siepe.

La ragazza abitava in un casale all’uscita del paese con uno stuolo di parenti del quale non amava occuparsi più di tanto.

Quando il cielo non era ancora rosato, in estate e primavera, usciva a lavorare nei campi, con la sua aria fiera che la rendeva diversa dalle altre ragazze. Fra le amiche spiccava per il garbo delle movenze e la riservatezza; cullava nel cuore l’ambizione dei semplici sogni, non quelli che solo gli abitanti ricchi del paese potevano permettersi.

C’erano nel borgo case patrizie, delle quali una, la più bella, si adagiava sul corso con la sua facciata ricca di stemmi e di balconi fioriti.

La Ricciola ogni tanto lasciava cadere uno sguardo sulle finestre del pianterreno dalle quali si intravvedevano gli alti soffitti, i lampadari, i quadri scuri appesi alle pareti; provava un misto di rammarico e una inconsapevole invidia per la gente chiusa in quella casa e costretta a chissà quale disciplina; era il mondo diverso della piccola e condiscendente nobiltà di provincia, verso il quale la ragazza nutriva anche l’atavico rispetto misto a un’arguzia tutta contadina che coglieva i lati deboli di certi personaggi.

La vita era scandita dal suono delle ore battute dall’orologio della torre campanaria nella piazza grande su cui passavano da secoli le gelate dell’inverno e gli stormi a primavera. La chiesa era il cuore del borgo che agli stranieri ne pareva a diritto il feudo, arroccato intorno a proteggerla e a esser protetto. Quando la Ricciola passava sollevava qualche sospiro di ammirazione, ma lei procedeva a testa alta, agile sulle scarpe della domenica, calzate sui piedi sfilati e nobili che non si sarebbe detto calpestassero sempre le zolle.

L’acciottolato delle strade era ghiaccio di neve nei lunghi inverni e scivoloso nelle gran piogge d’aprile, affollato durante le sagre che scandivano il passare delle stagioni.

Il mare, lontano, aveva barbagli azzurri e circondava come una collana luminosa le dolci colline digradanti, ricche di culture.

Il mare era il miraggio segreto della Ricciola; quante volte, appoggiandosi sulle reni e facendo arco col busto indolenzito dalla fatica, portava la mano a riparare il sole per spingere lo sguardo lontano, il più lontano possibile, a cogliere il balenare candido delle paranze sul cobalto delle acque.

Anche il borgo dalle vie anguste si impreziosiva come un quadro nell’ampio respiro del cielo e del mare lontano dal quale talvolta il vento portava un sentore di salsedine.

Celati sui fianchi delle vie si aprivano piccoli archi su ripide scalinate che si perdevano negli orti e nei campi. Alcune botteghe, rinnovate nel tempo serbavano tracce degli antichi mestieri; pareva che d’improvviso potessero apparire nei loro costumi gli abitanti del passato o l’incedere del messo papale venuto col suo seguito a controllare la "marca".

Nell’evolvere dei costumi e del tempo, restava tuttavia nell’aria una magica atmosfera di silenzi, di profumi, di fantasmi pallidi ed essenziali come i muri di mattoni che emanavano luci rosate.

Un bel giorno la Ricciola non andò più a lavorare nei campi e uscì dal casale per stabilirsi dai "signori". Aveva una camera tutta per sé, grembiuli candidi e cuffiette civettuole sulla siepe corvina dei capelli. La si vedeva raramente per le strade e aveva il fare sbrigativo e sicuro di una signora. Da ragazza si era fatta donna; i sogni si stemperavano nei tramonti azzurrini e nelle notti di luna nel riserbo assoluto della solitudine.

La grande casa viveva le usanze del luogo, sublimate in ricevimenti offerti a ospiti che provenivano anche da regioni lontane. Le olive e le creme fritte trionfavano nei grandi vassoi d’argento e la carni emanavano profumi delicati.

La Ricciola era la regina che governava con piglio la servitù con l’approvazione incondizionata della padrona.

Passavano gli anni; le antenne della televisione si moltiplicavano sempre di più, i motorini turbavano con il loro rumore sfacciato le quete strade del borgo. Nella chioma della Ricciola spuntava qualche filo d’argento.

Un giorno, un uomo timido e un po’ rozzo, suo amico di infanzia, la fermò arditamente per via e le propose di sposarlo.

La donna lo guardava con stupore misto a indignazione: a cosa sarebbero serviti tanti anni in una casa estranea, il sacrificio della giovinezza, l’aver messo a tacere i sogni per migliorare la propria vita, per dimenticare la fatica dei campi? Quella domanda di matrimonio precipitava la Ricciola in un passato lontano, fatto di inverni freddi nelle stalle e di fatiche snervanti. Era come se un discorso interrotto a un tratto si ripresentasse in tutta la sua cruda realtà.

La Ricciola non rispose, ma si allontanò a testa bassa, lasciando l’uomo a rigirarsi il berretto fra le mani.

Era passato un mese da quel giorno, era il momento della sagra.

La primavera fioriva gli alberi e i campi, i ruscelli scorrevano a fondo valle con l’impeto dell’amore nuovo.

La donna uscì nella strada, da sola come sempre. Portava un abito fiorito di lana leggera e scarpe con i tacchi alti.

Molta gente le era sconosciuta; le vecchie amiche avevano figli grandi, qualcuna anche nipoti; quando la incontravano le rivolgevano un saluto sfuggente.

Nella piazza c’era una piccola orchestra che suonava ballabili e le coppie volteggiavano su una pedana di legno circondata dai tavolini del bar vicino.

La Ricciola si sedé e ordinò una bibita: aveva gesti disinvolti e una grazia innata nelle movenze; con un piede ritmava piano il suono degli strumenti e il suo sguardo era perso oltre la piazza, verso lontananze azzurre.

A un tratto, qualcuno le prese il braccio costringendola ad alzarsi: in mezzo alla gente la Ricciola non osò ribellarsi e si trovò sulla pedana a ballare un valzer lento fra le braccia dell’uomo che un mese prima le aveva chiesto di sposarlo.

Il borgo guardava senza parere quel fatto straordinario: le donne sorridevano con malizia, gli uomini valutavano le probabilità di riuscita dell’aspirante marito.

Il giorno volgeva al tramonto: le luci azzurre calavano dal cielo e l’orchestra riponeva gli strumenti.

La Ricciola era rimasta con l’uomo sulla pedana in silenzio e, in silenzio, si avviò al suo braccio all’uscita dal borgo, verso i campi. La terra era umida dell’ultima pioggia e i tacchi affondavano nell’erba; la donna, con un gesto lento, consueto in passato al rientro dalla festa, si tolse le scarpe premendo i piedi nudi sul terreno; un freddo brivido di piacere la invase; respirò profondamente gli odori della sua terra lasciandosi condurre per mano nel silenzio della sera. Nel casale, grande e scuro in mezzo ai campi, alcune luci erano già accese.


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